giovedì 19 settembre 2019

Titolo del dibattito: "Le competenze imprenditoriali sono ereditarie? No." Fine del dibattito.

Il Padre Fondatore Numero Uno di Bellestoffe Group ha due figli, un maschio e una femmina. 
Il maschio si è laureato in economia e ha lavorato nel gruppo tessile fondato dal padre praticamente dal giorno successivo, in DatumStoff prima e in Bellestoffe Fashion poi.
Essere l'unico figlio maschio del padrone non gli ha per niente facilitato le cose; sia i sodali del padre che le maestranze lo hanno sempre considerato l'ultima ruota del carro, quello di cui non fidarsi, il meno riuscito, lo scarognato, insomma, uno da trattare sempre e comunque di scartina al punto che spesso i consigli di amministrazione cui avrebbe avuto ogni diritto di partecipare venivano convocati senza neppure avvertirlo.
Il sanguigno e sbrigativo padre non ha mai fatto proprio niente per nasconderglielo, anzi.
Quando aveva sui venticinque o trent'anni provarono anche a incoraggiarlo sulla via della politica, mandandolo a ciondolare nell'organizzazione giovanile di un partito che ai tempi furoreggiava e che allora come oggi era una delle destinazioni naturali dei figli cadetti, che vi venivano e vi vengono stivati perché non facciano troppi danni in fabbrica. Un atteggiamento che rappresenta da chissà quanto una specie di costante della borghesia imprenditoriale, con risultati che si vedono benissimo.
Insomma: il povero Emanuele Strini ha trascorso un paio di decenni a immalinconire negli uffici, tenuto buono con incombenze risibili e traccheggiando circondato da malevoli cachinni lardellati di sufficienza con cambi e valute estere, attività in cui fior di squali della finanza hanno trovato il modo di rovinarsi. A furia di picchiettare sulla tastiera del computer centrò la bolla finanziaria del 2001 e quella del 2008. Peccato che lo fece per il verso sbagliato, comprando azioni al massimo del loro valore e rivendendole a crollo avvenuto.
La cosa non gli fu perdonata. Passato per decreto paterno da un demansionamento all'altro, o a provvisori incarichi fatti apposta per cambiarlo di posto, si è trovato a sovrintendere ormai relativamente rasserenato alle rovine di un piccolo impero che era arrivato a schierare oltre un centinaio fra dipendenti e collaboratori e quasi una decina di ragioni sociali.
Alla sua imperturbabilità atarassica contribuiscono la stretta amicizia con le benzodiazepine (buttate giù come acqua) e i periodici soggiorni nella clausura di un austero eremo montano.
La figlia Isadora si laureò invece in giurisprudenza, e allo stesso modo venne a lavorare nella Premiata Ditta gomito a gomito con l'illacrimato estinto.
Come figlia del Padre Fondatore ebbe la sua congrua parte di quote sociali, al pari di un certo numero di parenti che campavano alle spalle di Bellestoffe Group senza mai aver mosso un dito in vita loro, e di qualche famelico aquilotto arciconvinto di essere un genio della trama e dell'ordito, tenuto buono con le briciole purché passasse a partita IVA consentendo ai fondatori di scaricare ogni rischio d'impresa sugli imprenditori di se stessi.
Gli anni in cui Isadora lasciò i codici per dedicarsi agli ordinativi erano ancora tempi in cui le pezze campesi si vendevano come le arachidi: i venticinque anni, l'aspetto da silfide e il modo di fare sicuro, uniti ovviamente al prestigio paterno, le permisero di essere ammessa alla corte del riservatissimo fondatore di quella Irrinunciabile Multinazionale che anni dopo Nerino avrebbe cercato di far fessa con i risultati che sappiamo. L'avvenire era comunque in grembo ai celesti, anche se ampiamente divinabile visto lo spessore del personaggio, e fu anche grazie a Isadora che Bellestoffe Group poté comunque rifilare per anni alla Irrinunciabile Multinazionale i pregiati capi d'opera dell'arte tessile campese.
Ora, a lungo andare ci si stufa di qualsiasi cosa. Il fondatore della Irrinunciabile Multinazionale si stufò di prendere fregature dalla Premiata Ditta, e Isadora si stufò di passare le giornate gomito a gomito con il "signor" Lanucci, per quanto buoni potessero essere gli introiti.
Dopo qualche anno Isadora, al culmine di un brutto periodo personale in cui diede pubblicamente in escandescenze un paio di volte (il solito "io vi licenzio tutti" e altra roba da padrone di ferriera) mise gli occhi su una ditta di confezioni dal nome teatrale che pareva ben avviata. Lasciò perdere il lavoro alla Premiata Ditta lasciando i soci e soprattutto i sottoposti a vedersela col sordido operato di Nerino e col disprezzo di clienti e fornitori, acquistò la società -con quali soldi non è dato saperlo, dal momento che il suo tenore di vita contemplava tante e tali spese da prosciugare qualsiasi conto corrente- e la trasformò radicalmente.
In primo luogo convinse alla spicciolata il personale a togliersi dai piedi, in modo più o meno amichevole, e lo sostituì con individui di suo affidamento scelti in base ai criteri che caratterizzano l'ambiente "imprenditoriale" campese e che privilegiano la remissività, l'esistenza di forti legami familiari e il sussistere di ineludibili necessità economiche di quelle che garantiscono la ricattabilità delle maestranze, lasciando fuori dai parametri di gudizio quisquilie come la competenza e la correttezza.
Poi ne cambiò la ragione sociale.
Poi ne cambiò la sede: la morìa di ditte, sottoditte e reparti aveva già allora liberato un mucchio di posto negli stabili del padre e una sistematina a furia di cartongesso e tempera, unita a canoni d'affitto eccezionalmente benevoli, avrebbe senz'altro messo l'impresa sulla strada giusta per macinare utili a tutto spiano.
In pochi mesi la volenterosa giovane si presentò come stilista con un marchio proprio, che sostituì il nome teatrale della ditta rifondata e trasferita.
Poi vennero le tappe successive, che per una giovane donna di grandi ambizioni sono sempre le stesse: matrimonio dallo sfarzo campese e gravidanza che più programmata non si potrebbe. Le condizioni e le circostanze del concepimento cronometri alla mano, per una giovane donna tanto dinamica e dall'agenda tanto fitta di impegni, che tanto chiede al proprio fisico, è meglio lasciarle all'immaginazione.
Al bambino fu imposto, più che un nome, uno stigma.
Allo stesso modo fu battezzata una linea di capi femminili destinati a un target altissimo ma pur sempre fatti a Campo, ovvero con materiali discutibili e lavorazioni in economia.
Lo stile della silfide nerovestita si era assestato da subito su capi che sarebbero stati plausibili soltanto addosso a una diciottenne reduce da un paio di annetti ad Auschwitz e alta almeno un metro e novantasei. Già questo riduceva gli acquirenti potenziali a numeri con tre cifre, per quanto grande e affollato sia il mercato di riferimento. Se poi pensiamo che erano a tre cifre anche i prezzi, e più sul novecento che sul cento, ecco materializzarsi qualche ostacolo in più sulla via del successo e della prosperità.
Incurante di ogni obiezione e fortissima dei portafogli paterno e maritale, la silfide partì in grande con una boutique monomarca a Castel degli Stucchi, una località della costa a un tiro di schioppo da Campo un tempo frequentata da campesi straricchi e ora infarcita di straricchi di altra provenienza, che hanno da molti anni superato i frequentatori originari negli ardimentosi campi dello sperpero, dello scialo e dei lussi grossolani. Isadora Strini si sarebbe accorta di una realtà scomoda: si tratta di una clientela non certo facile da attirare e che in questo settore le apparenze ingannano che è una meraviglia.
Piccolo particolare: per costruire la fama e la redditività di un marchio occorrono sempre e comunque decenni di lavoro, spesso anonimo e spesso sotto traccia. Pare che la cosa non sia rimpiazzabile con le campagne pubblicitarie, per quanto massicce e per quanto dispendiose, e meno ancora piazzando di punto in bianco un negozio di vestiti in una via commerciale, per quanto prestigiosa possa essere la location e per quanto alti possano di conseguenza essere gli affitti.
In meno di un anno i conti decretarono la tragedia. O meglio, l'avrebbero decretata nel caso di chiunque altro avesse avuto alle spalle finanziatori meno benevoli: un intervento paterno rimise tutto a posto e consentì un secondo tentativo.
Un po' meglio meditato, magari.
Perfino lei arrivò a tanto consiglio, il che in un individuo assolutamente egoriferito è già lodevole indice di un minimo di coscienza.
Dopo qualche mese di riflessione decise di non dannarsi l'anima coi ricconi in vacanza, e di andare a cercarli direttamente a casa loro con altri sistemi sperabilmente più efficaci. I vestimenti da internata disegnati dalle raffinate ed esigenti mani di Isadora avrebbero fatto bella mostra di sé in negozi on line e in negozi multimarca, aperti nei principali grandi magazzini di città mai sentite nominare ma sperabilmente esclusivi a sufficienza, visto che la Nostra ostentava un disprezzo da lord Brummel per qualunque cosa le sembrasse cheap. Il tutto, tenuto insieme con un battage pubblicitario fitto di endorsement prestigiosi, o assai più spesso presunti tali.
Per diversi anni il benevolo sostegno paterno e quello ancor più benevolo del marito, scelto a suo tempo con oculatezza fra i rampolli della Campo che Pensava di Contare, hanno puntellato lo stile di vita di Isadora e il suo costosissimo giocattolo -un'impresa comunque traballante che nei bilanci migliori chiudeva a malapena in pari- senza mai metterne in discussione la linea stilistica o la gestione. La visibilità mediatica e la fitta pubblicità del marchio Isadora Strini di conseguenza non corrispondevano affatto a una realtà consolidata, e in qualche caso hanno portato a esiti di comicità involontaria piuttosto notevoli, come l'orgogliosa presentazione della foto in cui compare una certa cantante ventenne ritratta con un prezioso capo Isadora Strini dopo essersi esibita in una performance televisiva.
Dopo, non durante.
Probabilmente il durante imponeva esborsi su cui perfino lei aveva dovuto ponderare con attenzione.
Insomma, i quattrini altrui hanno consentito a una campese di intestardirsi per chissà quanto a farsi largo a gomitate tra le grandi firme che infarciscono quelle riviste di moda che si ammucchiano dai parrucchieri e dai dentisti. Peccato che le svendite nell'outlet improvvisato nell'androne della sede centrale (lontanissima da qualsiasi prestigioso distretto commerciale) e tenute a cadenze sempre più frequenti parlassero una lingua piuttosto diversa e tutt'altro che trionfalistica.
Al mondo tutto ha un limite, anche la benevolenza del portafoglio dei congiunti, per quanto fornito. Dopo anni e anni e anni di presentazioni in sedi prestigiose, di interviste esclusive, di viaggi in business class alla scoperta dei mercati emergenti, di atelier nella capitale della moda, di ristoranti stellati, di modelle asfittiche, di location innovative, di ricevimenti in cui si siede quasi accanto a questo o a quel nome di fama mondiale e soprattutto di note spese con quattro zeri anche il più generoso pigmalione alzerebbe bandiera bianca, figuriamoci il secondo (e ultimo) discendente di una famigliola di imprenditori tessili campesi.
Stufo di turare con palate di quattrini i buchi nei bilanci-gruviera (un formaggio talmente cheap da essere senz'altro bandito dalla mensa di lei), a sottolineare la gravità della situazione il marito di Isadora approfittò della stagione calda per cominciare a presentarsi in ditta in calzoncini corti, come per far presente di essere rimasto in mutande. Un arbitrio inaudito, una licenza a un dress code inappuntabile cinque stagioni l'anno che in altri tempi non sarebbe stata tollerata ma che ora vedeva Isadora silente, se non proprio accomodante. Meglio non alzare troppo la cresta; non sarebbe il primo matrimonio che finisce con un fitto scambio di salve di stoviglie e suppellettili domestiche. Nel caso specifico aprire le ostilità avrebbe senz'altro messo a repentaglio un patrimonio di vasi Ming e di porcellane di Limoges.
A differenza di quanto successo con le precedenti cessazioni di attività avvenute in Bellestoffe Group la brigata dei dipendenti dovrà per intero arrangiarsi in proprio: non esiste più alcun ricettacolo in cui ricollocare gli esuberi.
Probabilmente, neppure in tutta Campo.

venerdì 1 marzo 2019

Esodo

L'agonia della Premiata Ditta fu preceduta e accompagnata dall'emorragia del personale. Che prese la via delle più varie destinazioni. In molti casi chi scrive esitò qualche palanca da questi trasferimenti approntando servizi e configurazioni, allestendo macchine e fornendo consigli e suggerimenti per lo più ignorati, dal momento che a Campo tutti hanno studiato alla scuola della vita e figuriamoci se c'è da preoccuparsi di roba del genere.
Ettore Maria Parvi era stato collega di Nerino ai bei tempi di Bellestoffe Tela. Nerino lo aveva trattato da un giorno all'altro per anni e anni in una maniera tale che dopo aver assistito a comportamenti repellenti, scene imbarazzanti e furberie continue, dopo aver insomma sopportato l'umanamente sopportabile, una sera qualunque un Ettore Maria ormai sull'orlo di una crisi isterica aveva fatto irruzione in un consiglio di amministrazione e alla presenza di una piccola folla di soci, manutengoli, mezzani e "professionisti" di quelli che ti vengono a trovare con la cravatta, raccontano due boiate e poi emettono fatture con tre zeri aveva gettato la spugna, aveva salutato e se n'era andato per sempre da Bellestoffe Group.
Un bel po' di anni dopo, il giorno dei funerali a Vallepirlo, il signor Parvi era parte della fitta schiera di persone perbene venute a controllare de visu che Nerino fosse morto davvero.
E morto schiantato.
Nei mesi successivi il signor Parvi intensificò i rapporti con i vecchi colleghi e tolse dalle ambasce Galeazzo Fabrizi (cacciato su due piedi da Patrizio Riva) nominandolo capo (e unico addetto) dell'ufficio commerciale della Parvitex, una delle svariate ditte tessili che aveva fondato e diretto dopo la sua brusca uscita dalla nostra felice famigliola.
Insieme a Galeazzo la Parvitex arruolò anche Solyanka Moskowitz, la rappresentante turkmena con cui il caro estinto aveva violato per anni almeno due o tre comandamenti, e tolse con briosa disinvoltura dalle manine rassegnate delle sorelle Redentori i due terzi del campionario della Premiata Ditta. La vendetta -piatto che va mangiato freddo- ha un buon sapore e ad Ettore Maria Parvi non pareva vero di rifarsi con gli interessi di quello che Nerino Lanucci gli aveva fatto passare; in poche mosse contava di (1) rafforzarsi sul mercato interno grazie a Galeazzo, (2) entrare nel mercato turkmeno grazie a Solyanka e (3) vivere di rendita sullo sviluppo di prodotti per una stagione almeno.
Piccolo problema.
Imbarcando velocissimo il Fabrizi, la Moskowitz e un campionario intero, il Parvi imbarcava ancor più velocissimo un campionario anche più assortito del variopinto ginepraio di furberie, favori incrociati, gabole e carambole su sui si regge da sempre l'industria tessile campese. Un ginepraio che finisce regolarmente con lo strangolare chi vi si addentra, specie se lo fa animato da intenzioni costruttive, dopo averlo avvinto e convertito; in città impera a tutti i livelli e in tutti gli ambienti un individualismo manicomiale simbiotico a una tradizione di accoltellamenti reciproci, di tradimenti tra soci, parenti e fratelli di sangue che solo chi ne ha frequentato gli ambienti lavorativi conosce bene. L'impressione che se ne ricava è che le imprese, a Campo, siano una via di mezzo fra il giocattolo e il bancomat in cui la disonestà impera ad ogni livello fra il padronale e il servile. Il campese venderebbe tranquillamente madre e fratelli per cinque euro, se gli servisse denaro per qualche consumo miserabile.
Com'era prevedibile in questo tempio di solida etica e di esistenze integerrime, a qualche giorno dall'incorporazione Fabrizi e Moskowitz erano, amiconi e cinguettanti, a fare bella mostra di sé sulle reti sociali. Anziché al lavoro -come sarebbe stato auspicabile- le immagini che li ritraevano insieme li mostravano in antichi centri storici e locali costosi, in contesti di shopping, in high streets di varie città europee. L'uomo dall'aperitivo facile e la donna facile anche senza aperitivo sapevano già come trarre il massimo vantaggio dal Parvi e dalla sua ditta.
Qualche tempo dopo, chi scrive ricevette una telefonata da Ettore Maria Parvi.
Ettore gettava la spugna; la Parvitex chiudeva perché prima di perdere soldi senza freno e di portare i libri in tribunale era meglio ammettere la sconfitta e limitare i danni.
Dopo due parole di convenevoli Ettore venne al sodo: gli servivano gli estremi di una certa casella di posta, perché qualcuno aveva combinato qualche guaio e occorreva almeno togliergli di mano quelle credenziali visto che l'indirizzo incriminato girava allegramente per tutto il variopinto mondo dei rappresentanti, dei mezzani e di tutto quell'universo di ben vestiti che campa alle spalle di chi lavora sul serio.
"...No, Ettore. Non c'è rimedio."
"Ma come?! Io sono entrato per cambiargli la password ma quello ha ricevuto l'alert ed è stato più veloce di me..."
"Appunto..."
Come i lettori avranno intuito, non esisteva rimedio perché Ettore Maria Parvi, campese della più bell'acqua del tipo che "piloto io, è tutto sotto controllo", per non pagare due lire di dominio aveva man mano assegnato a dipendenti e collaboratori indirizzi singoli su [grossissimo fornitore di servizi] che aveva personalmente creato e configurato uno per uno.
Risultato, tutti erano stati padroni di modificare le credenziali a piacimento.
Il rischio -pardon, la certezza- di quanto poteva succedere era evidente a chiunque non fosse un cinghiale o un campese. A fronte di questa politica, affrontata col consueto piglio ridanciano e con la granitica sufficienza che contraddistinguono i veri campesi in ogni atto della loro spesso miserabile esistenza, era inutile avanzare dubbi o messe in guardia.
A suo tempo chi scrive si era quindi ben guardato dall'aprire bocca, sicuro che i risultati non avrebbero tardato a occorrere. Adesso, alle prese con qualcuno che evidentemente non aveva limitato il proprio imperversare al gonfiare oltre ogni limite qualunque nota spese gli capitasse a tiro, Ettore Parvi faceva quasi compassione.
 

sabato 9 febbraio 2019

Termina la breve stagione di Patrizio Riva, consulente sedicente (o sedicente consulente, fate voi).

Il giorno precedente l'inizio della già descritta e importantissima fiera parigina di settore, dopo aver sparigliato carte, organizzazione, itinerari, logistica, tempistica, campionario, sistemazioni alberghiere, fondi cassa e catering, Patrizio Riva si decise finalmente a dare il benestare per la partenza.
Durante la permanenza in Francia non mandò né un SMS né un messaggio né una mail né un qualsiasi segno di vita che facesse trarre qualche auspicio sulle sorti della trasferta, sull'andamento delle campionature, sui tagli da preparare al volo, magari su auspicabile richiesta di qualcuno dei tanti, troppi clienti importanti che Nerino aveva circuito, ingannato, vilipeso o tradito per tanto, troppo tempo e che fosse di memoria tanto labile da consentire alla Premiata Ditta di farsi sotto un'altra volta.
Non che le maestranze ci sperassero molto; le giornate trascorrevano fra moti di spalle, allargamenti di braccia e pratiche sbrigate di malavoglia ad attestare la poca o punta fiducia che il basso ma sgradevole, l'assertivo ma fanfarone, il viscido ma imprevedibile Riva ispirava a tutti.
Tranne che alle sorelle Redentori, ormai accalappiate e costrette a ballare in una danza di cui non conoscevano né i passi né la musica e che si facevano portare avanti da una sostanziale incoscienza sotto lo sguardo vigile di Gianna Patrizi, sempre più attenta a ostentare la propria indispensabilità aziendale e a mettere la sordina al suo ruolo di custode, scrivano e soprattutto complice delle cialtronate e degli arraffi dell'illacrimato estinto.
Intanto che Patrizio Riva rispettava la kasherut divorando mortadella in riva alla Senna in compagnia di un team commerciale ridotto ai minimi termini dalle esecuzioni extragiudiziali, Gianna faceva in modo da assicurarsi la soft exit da una situazione che poteva ancora stritolarla suggerendo i passi successivi alle sempre più disorientate Redentori, che passavano dalla blanda curiosità alla completa abulia man mano che nuovi tasselli si aggiungevano a comporre il mosaico del disastro.
E altri indizi sulla vera natura del sedicente ebreo andavano col passar del tempo a completare il poco lusinghiero ritratto del signor Riva già abbozzato dal sobrio Pino Pierini fin dal primissimo momento. In un'epoca in cui anche i cani randagi rendicontano puntuali su qualche "social media" la propria quotidianità -e la cosa vale a maggior ragione per imprenditori o presunti tali, consulenti o sedicenti tali- Patrizio Riva risultava curiosamente inafferrabile e figurava poco o nulla; gli unici indizi reperiti sulle sue ostentate iniziative imprenditoriali e sui suoi folgoranti successi portavano a un pretenzioso e inutile fashion bar aperto a Campo qualche anno prima, e durato giusto il tempo di farsi svaligiare un paio di volte.
Il ritorno della truppa da Parigi non ebbe nulla della frenesia attivista con cui normalmente si concludevano le trasferte. Gli ordini di campionatura passarono alla Baranidze con una calma mai vista, la gloriosa cassa da imballaggio col materiale per le trasferte riprese la sua collocazione in magazzino ancorché sconciata dal biancastro patriziesco, e tutto tornò a svolgersi nella abulia tetra di cui si è già lungamente trattato... fino a quando, nell'immediato e per rapidissime tappe successive, i componenti dell'ufficio tecnico della Premiata Ditta sparirono alla spicciolata alla volta di altri lidi con un'unica eccezione, lasciando di fatto sguarnito l'intero settore produzione e disperdendo il know how aziendale, che Nerino aveva preferito lasciare alla memoria dei tecnici e di qualche appunto volante anziché sistematizzare in qualche modo perché il rischio era, come sempre, che le informazioni finissero prima o poi nelle mani sbagliate. Insomma, nell'epoca che prospetta l'ufficio senza carta una miriade di informazioni sulla composizione degli articoli, sul costo delle materie prime, sui costi di lavorazione e soprattutto sui terzisti da evitare perché presi in giro (se non proprio truffati) da Nerino era affidata a fogli volanti, faldoni e memoria dei singoli.
E poi a Campo le cose sono sempre state fatte in un certo modo, vale a dire spiegandosi a gesti, interiezioni, imprecazioni e bestemmie; perché mai cambiare un approccio alla produzione e alla vendita che hanno funzionato tanto bene, producendo tanta ricchezza.
Ora, personale commerciale decimato e tecnici spariti significano due cose. Nessuna penetrazione di mercato e nessuno a dare seguito produttivo a eventuali ordinativi. Proprio quello che ci vuole per una ripresa dell'attività.
Il tutto si verificò praticamente in capo a tre giorni, e senza che nessuno si curasse minimamente di correre ai ripari.
Anzi.
Nell'imbrunire di una giornata qualunque a fine gennaio, lo stesso consulente del lavoro nella cui anticamera Patrizio Riva aveva ciondolato chissà quanto in attesa di carne fresca si presentò in ufficio amministazione.
Chiamati uno per volta, due terzi dei superstiti compreso chi scrive si sentirono schiaffare in ferie prima e in cassa integrazione a seguire, sine die e senza prospettiva alcuna. Le sorelle Redentori, facendone dare annuncio al consulente, trovarono anche il modo di risparmiare qualche decina di euro di corrispondenza raccomandata, paludando la cosa dietro la patetica forma della delicatezza verso maestranze tanto fedeli e affezionate. Come sempre in questi casi, mistero e silenzio sovrintendevano alle motivazioni della decisione anche se fu subito chiaro che gli esclusi dalla drastica misura contemplavano Gianna Patrizi e pochissimi altri, il che fa pensare che l'attivismo premuroso dell'Amministrativa Taciturna avesse pesato non poco sulla scelta delle teste da troncare e pazienza se di fatto l'attività della Premiata Ditta ne veniva paralizzata in ogni settore con tanti saluti a qualsiasi prospettiva di ripresa per ipotetica che fosse.
Dopo qualche altro giorno tascorso non è dato sapere come ma verosimilmente ostentando lo stesso attivismo inconcludente che tanto lo aveva fatto disprezzare, Patrizio Riva realizzò finalmente che la Premiata Ditta era un osso tutt'altro che polputo.
Insomma, non c'era nulla da arraffare.
Cosa diavolo ci stava a fare, lui.
Cominciò a dirarare la propria presenza e a diluire il proprio impegno; ad un mese circa dalla visita del suo sodale (e sicuramente complice in chissà quante operazioncine dello stesso costruttivo genere) si congedò dalle sorelle Redentori con due parole per iscritto... e sparì chissà dove.
Non male, come operazione di rilancio.